“Bambini, ma perché non volete nemmeno assaggiare quello che avete nel piatto? Sapete che ci sono dei bambini che mangiano solo una volta al giorno?!
Tutti gli anni, arrivata ad un certo numero di turni in mensa (non ho mai calcolato il numero, ma sono quasi certa che ci sia una soglia ben precisa oltre la quale scatta lo sclero), la mia pazienza si esaurisce.
Mesi e mesi a cercare di convincere piccoli puledrini a non mangiare solo il pane ma almeno ad assaggiare (“daiiiiiii….prendine almeno una briciola con la forchetta”) una pietanza che hanno nel piatto… Sfido chiunque a mantenere i nervi saldi senza mostrare un attimo di cedimento.
Ovviamente, quando perdo la pazienza (sigh, ormai mi conosco) parte il predicozzo:
“Non sapete quanto siete fortunati ad avere qualcuno che vi metta un piatto davanti al muso mattino, mezzogiorno e sera. Esistono paesi in cui i bambini mangiano solo una volta al giorno (a volte neanche quello) e solo un pugno di riso, bla, bla, bla…”
Spesso poi mi pento perché penso che non serva a niente e domani vedrò le solite scene a mensa… Del resto, con me non funzionava, perché dovrebbe con loro?!
L’ultima volta che è scattato il predicozzo però è successa una cosa strana. Guardando le loro facce, mentre sciorinavo la mia ramanzina, mi sono resa conto che alcuni di loro non abbiano proprio idea di cosa voglia dire, che esistono “mondi” in cui avere una scuola nella quale andare, un pasto da mangiare, a volte addirittura una casa dove abitare, non sia per niente scontato. Eppure quel “mondo” non è poi così distante (anche noi adulti siamo portati a pensare che situazioni del genere esistano solo in paesi lontani, come l’Africa), anzi, è molto vicino, vicino come un compagno di classe, il tuo.
Lavorando in un quartiere alle porte di Milano, fatto di tante case popolari, mi è capitato, non senza un po’ di imbarazzo (perché la povertà ferisce non solo nel corpo ma anche nello spirito chi la subisce e quindi bisogna avere particolare delicatezza con queste anime) di chiedere a qualche mamma, che sapevo avere bisogno, se le sarebbe piaciuto ricevere un mio cappotto, oppure di comperare “di nascosto” quaderni e matite per quei bambini.
Alcuni lo chiamano “fare la carità” (come quel gesto formale che ti spinge a dare una monetina al ragazzo che ti lava i vetri al semaforo, quando ci sono 3 gradi sotto zero e tu sei nel calduccio della tua macchina), eppure mi rendo conto che coi miei bambini (e i loro genitori) non ci sia nulla di “formale” ma un’evidenza dettata dalla realtà: quel/la bambino/a c’è e ha bisogno di un quaderno per scrivere, o di una quota per partecipare alla gita e il tuo cuore non può fare a meno di rispondere a questa realtà (che poi penso sia il vero significato di Carità, quella vera, con la C maiuscola).
opo alcuni anni a stretto contatto con questa forma occidentale (ma non per questo meno ferita) di povertà, sto scoprendo che la cosa che fa più male a chi vive in queste situazioni non è tanto la povertà in sé, quanto piuttosto l’essere “invisibile”, come titola questo commovente libro di Tom Percival.
Perché i miei alunni non sanno niente di questa realtà? Perché non sanno niente della povertà? Spesso pensiamo che il mondo dei bambini debba essere tutto spensierato, leggero, fatto di cartoni animati, giochi e colori, una versione edulcorata, che cerca di minimizzare i drammi e cancellare le paure (se non ti vedo non esisti).
Non fraintendetemi, è giusto proteggere i bambini dagli aspetti più traumatici e bui della vita. Allo stesso tempo, però, penso che “tappargli gli occhi” davanti al barbone che chiede la carità sul marciapiede, cambiare discorso quando vedono le file sempre più lunghe (ahimè!) davanti alle mense della Caritas, riempiendo le loro domande di imbarazzati silenzi e di un mal celato senso di disagio, lasci in questi piccoli un vuoto incolmabile.
Perché i bambini, ricchi o poveri che siano, hanno innanzitutto bisogno di adulti che siano in grado di introdurli alla realtà in TUTTE le sue sfaccettature, che non fuggano davanti alle loro difficili domande, ma che, provando a rispondere, gli facciano capire che per quanto dolorosa tutta la realtà può essere affrontata.
Usando le parole del libro: “erano insieme”.
Scusate, so che questa volta ho scritto tanto di me (e dei miei predicozzi) e ho parlato poco del libro… Ma lascio a voi e ai vostri piccoli la comprensione di questo commovente libro che consiglierei dai 5 ai 8 anni.
L’autore stesso, che alla fine del libro parla in prima persona della povertà che ha vissuto da piccolo, penso sia la più bella e ampia dimostrazione di quanto un uomo, proprio perché nato in condizioni poco favorevoli, possa dire al mondo cosa lo ha salvato e cosa gli ha reso questa vita vivibile (Spoiler allert! Non è stato attraverso il cambiamento delle condizioni economiche).
Unica accortezza: accompagnate i bambini, non lasciateli da soli in questa lettura. I più sensibili soprattutto, hanno bisogno di essere accompagnati per mano in questa “avventura nell’umano”.
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